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La radicalizzazione dello scontro tra visioni contrapposte, che sta caratterizzando la lotta politica negli Stati Uniti, preoccupa per le ripercussioni della cultura americana sul resto del mondo, Italia compresa.

L’ultimo scontro manicheo è quello in atto sul tema dell’aborto.

Nel mio percorso di padre non potrò mai dimenticare quando mia moglie, alla prima gravidanza, ebbe un problema, e ci precipitammo in ospedale per un controllo. In attesa, col cuore in gola, ci trovammo vicino ad una ragazzina in lacrime, accompagnata da un’amica, nell’evidente opposta situazione di una gravidanza indesiderata. La nostra visita andò bene, ma rimanemmo colpiti dalla freddezza della ginecologa di turno, che di fronte alla nostra preoccupazione per il “bambino” sentì il bisogno di specificare che a 4 mesi “è un feto e non un bambino”, ed il fatto che l’ecografia non mostrasse problemi evidenti, “non poteva escludere che avremmo perso il feto di lì a una settimana”. Il nostro pensiero andò subito alla ragazzina che sarebbe entrata dopo di noi, e alla freddezza di un sistema che l’avrebbe portata ad abortire in maniera quasi meccanica.

Il dibattito che si è aperto negli Stati Uniti sta dividendo il mondo in bianco e nero, con una semplificazione preoccupante, dopo una sentenza della Corte Suprema che cambia la linea consolidata.

Esiste sempre una valutazione di tipo politico nelle decisioni delle Corti costituzionali. Perché nemmeno i “diritti” sono delle verità assolute: sono vivi, si riempiono di contenuti diversi a seconda di come cambia la società, e soprattutto vanno bilanciati con altri diritti.

Ma leggendo la sentenza della Corte Suprema americana l’impressione è che vi sia stata una doppia forzatura: nel 1973, quando la stessa Corte aveva utilizzato il diritto alla privacy per riconoscere una sorta di diritto all’aborto, fissando delle regole che dovrebbero essere prerogativa dei parlamenti, ed oggi, ribaltando la sentenza precedente con argomentazioni discutibili, superate e strumentali, quali il richiamo alla lettera del testo originario della Costituzione americana, negando con ciò che il diritto è vivo e non immutabile.

Alla fine però la Corte Suprema non ha stabilito, come pare emergere dalla semplificazione mediatica, un divieto all’aborto, bensì ha riconsegnato al legislatore la responsabilità di disciplinarne pratica e limiti. Un po’ come l’invito ripetuto della nostra Corte costituzionale al legislatore italiano di intervenire per disciplinare il “fine vita”.

La guerra tra pro vita e pro libertà di scelta ha radicalizzato le posizioni; a spaventare sono le proposte estreme presenti nel dibattito politico americano: si va dal divieto assoluto di aborto, anche in caso di violenza subita o di rischi per la salute della donna, con risvolti penali per chi non rispettasse il divieto, all’opposta e altrettanto indegna proposta di possibilità di aborto senza limiti temporali, fino al giorno della nascita del bambino.

Un dibattito più approfondito dovrebbe tenere conto di alcune considerazioni.

Il primo, filosoficamente inattaccabile, è che la vita è un continuum, non esiste un momento di scarto.

É aberrante poter pensare che un nascituro, dopo 9 mesi di gestazione, pochi minuti prima di nascere, possa essere ucciso. Andando a ritroso, non esiste un momento in cui si passa da “vita” a “non vita”. Spesso il legislatore fissa come momento differenziale quello in cui il nascituro sarebbe in grado di vita autonoma, ma oggi lo sviluppo scientifico continua ad anticipare e rendere variabile questo momento.

Per queste ragioni, perché parliamo di una vita in itinere, il tema dell’aborto è così denso di implicazioni etiche; per queste ragioni il diritto di autodeterminazione delle donne deve trovare un bilanciamento col diritto alla vita del nascituro, e per questo il legislatore deve stabilire limiti e modalità dell’aborto. Molto oneste, in questo senso, le riflessioni di una femminista come Lucetta Scaraffia, che si chiede se sia stato corretto fondare la battaglia pro aborto sulla richiesta di riconoscimento della possibilità di abortire come un diritto naturale delle donna, anziché limitarsi a chiedere la depenalizzazione della pratica.

Queste riflessioni tuttavia non possono portare all’opposta posizione radicale del divieto assoluto di aborto. Nessuno può mettere in discussione il diritto all’aborto quando c’è in gioco la vita della madre, o vi sono gravi disfunzioni nel nascituro. Inoltre il legislatore deve tenere conto di un dato di realtà: il divieto favorisce l’illegalità, e un grande fratello che controlli le donne in gravidanza per punirle, in caso di (pericoloso) “aborto fai da te”, sarebbe terrificante. Ricordiamoci che non stiamo parlando di un argomento di nicchia; negli Stati Uniti si praticano quasi un milione di aborti all’anno, con una percentuale di aborti su 1000 donne in età fertile del 14,4%, contro il 5,4% dell’Italia.

Il sistema più corretto e sostenibile dovrebbe essere quello che riconosce la possibilità di scelta della donna, entro limiti temporali rigorosi (per quanto convenzionali e quindi problematici), come prevede la 194, ma rinforzando gli strumenti che possono contribuire davvero alla possibilità di una scelta consapevole, mettendo a disposizione forme di sostegno concrete e complete per chi decide di portare a termine la gravidanza, evitando che la scelta sia determinata dalle condizioni familiari, culturali, sociali ed economiche della donna. Quella prima parte della legge 194 non è stata mai attuata fino in fondo; andrebbe ripresa per consentire di raggiungere l’obiettivo di ridurre più possibile il ricorso all’aborto, che dovrebbe davvero essere extrema ratio, pur senza vietarlo in assoluto.

Un dibattito equilibrato è possibile, su questo come su altri temi, ma occorre una politica che non divida il mondo tra bianco e nero e i cittadini in tifosi.