Sabato 9 maggio è partito da Venezia, per il suo 100° anno, il Giro d’Italia. In televisione si possono seguire diverse trasmissioni dedicate all’evento. Il ciclismo fa parte della storia del nostro Paese, le immagini in bianco e nero di Coppi e Bartali ci rimandano ad un’Italia che non c’è più, a un popolo segnato da una guerra folle che ha segnato per sempre un’epoca. Ma ci rimandano anche alla speranza di quegli anni, alla fiducia in una crescita del livello di vita senza precedenza. Quando vediamo quegli uomini leggendari però i pensieri vanno anche ad altro che alla storia. Il ciclismo, e lo sport di fatica in generale, ci rimanda all’essenza stesso dell’uomo.

Negli occhi dei ciclisti in bianco e nero rivediamo la stessa solitudine dei ciclisti firmati di oggi, quando devono affrontare l’ennesimo passo alpino. Quando la fatica si fa dolorosa, quando il tuo concorrente non molla ma vuoi tenere duro ancora ma non sai se ce la fai, quando il cuore di batte nelle orecchie e le gambe ti fanno male e vorresti solo fermarti ma non vuoi mollare.

 Ricordo le “imprese” che facevamo con gli amici per andare a vedere il giro sui grandi passi: Manghen, Mendola, Tonale, Pordoi, Sella, Fedaia, Pampeago.. un pò per vedere i corridori, un pò per salire senza macchine in mezzo a miliaia di persone, un pò perchè noi giovani e forti andavamo a tutta e in una salita sorpassavamo qualche centinaia di persone, poco importa se anziani, sovrappeso o con bici d’epoca, sempre più piano di noi andavano…

Il tifo del ciclismo è un tifo senza nemici, non è luogo per sfogare rabbia e frustrazione come troppo spesso succede su qualche campo da calcio. Troppo grande la fatica per insultare un corridore, troppo rispetto per chi percorre in un anno la circonferenza terrestre e guadagna molto molto meno dei pochi che riescono a vincere. Ed anche i campioni non sono miti, ma uomini, magari capaci di soffrire più degli altri. Forse anche per questo in genere il tifo del ciclismo è un tifo emozionato, appassionato, ma sobrio.

 Le immagini vanno avanti, Merx, Saronni-Moser, Marco Pantani.
 Sono passati dieci anni da quella maledetta giornata di Campiglio, ma ogni volta vedere Pantani che scatta in salita ti riporta una stretta al cuore.
 Pantani era diverso; ancora oggi lo rivedo ogni volta che salgo in bici (sempre meno, sempre più piano..) con l’amico Paolo, suo ammiratore oltre il tempo, sia per l’inquietudine che gli senti dentro, sia per l’immagine del pirata sul telaio della bici.
Era diverso perché in quello sguardo mai fermo intuivi che la sua volontà di andare più forte, il suo voler arrivare prima degli altri in cima, non erano tanto o solo ambizione, voglia di vincere, competitività, bisogno di popolarità. Erano anche inquietudine esistenziale, erano ricerca di se stessi nello spasmodico tentativo di superare il proprio limite, erano inseguimento di qualcosa, più che fuga.

Entusiasmava perché vinceva, perché stravolgeva le leggi di un ciclismo fatto per cronoman calcolatori che gestiscono in salita il vantaggio accumulato, perché scattava, sempre e comunque, perché era diretto e sincero. Ma anche perché non era un dio, era un uomo; dietro l’aura di leggenda costruita dai media c’era la fragilità dell’uomo solo in mezzo alla folla che lo acclama.

 Forse per questo il ciclismo, nonostante la piaga del doping, continua ad entusiasmare. Perché rappresenta la vita.

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