Interrogazione n.

FIGLI ALLA PATRIA

Come noto, la fine della Grande Guerra lascia in Europa una situazione di forti squilibri socioeconomici innescati da crisi finanziarie legate, a loro volta, al problema della riconversione delle produzioni. In questo contesto si fa strada l’ipotesi neomalthusiana circa la riduzione delle nascite per ovviare alle difficoltà economiche di famiglie e gruppi sociali: è la teoria del “birth control” che fa rapida presa nel mondo anglosassone e poi un po’ ovunque in occidente. A partire dalla metà degli anni Venti del Novecento, ci si accorge però che la contrazione delle nascite, soprattutto nel vecchio continente, porta ad un declino demografico che indebolisce gli Stati e le loro prospettive di futuro e, invertendo la direzione di marcia delle cosiddetta “programmazione sociale”, vengono adottate rapidamente politiche pronataliste.

E’ in questo contesto che, in Italia, Mussolini tiene un discorso pubblico il 26 maggio 1927, passato alla storia come il “Discorso dell’Ascensione”, con il quale contesta la retorica dell’eccessiva natalità italiana – che all’epoca, va ricordato, è pari a 27,5 nascite annue per mille abitanti – e dichiara che la decrescita demografica può rivelarsi come una minaccia mortale per le aspirazione espansive ed imperialiste del nostro Paese. Ma, nonostante gli appelli del duce, fare figli nell’Italia del tempo è difficile: le risorse delle famiglie sono poche; le crisi economiche incombono; mancano quasi del tutto servizi di supporto e di ausilio alla maternità e così le attese del fascismo vengono deluse, fino a quando, nel 1937, viene rilanciata la politica demografica con il Regio Decreto Legge n. 1542 del 21 agosto 1937 che vara provvedimenti atti a sostenere direttamente ed indirettamente la natalità.

Sostegno al matrimonio ed alla famiglia più tradizionale, attraverso incentivi a favore della prolificità per le giovani coppie; introduzione della famosa “tassa sui celibi”; simultanea attivazione della politica razziale che limita i gruppi sociali diversi da quelli ariani e li esclude da ogni tipo di sostegno ed inoltre aiuti per sostenere spese d’affitto, attivazione di asili per l’infanzia pagati dallo Stato ed altre provvidenze minori, inserite in un contesto non privo di qualche organicità.

Ma veniamo all’oggi, ottant’anni dopo.

Il Presidente della Provincia pone al centro delle sue azioni l’obiettivo della natalità, dichiarando che “proveremo per cinque anni a garantire un forte sostegno finanziario alle famiglie che vogliono fare figli e vedremo se questo produrrà effetti”. Ma non solo. Al contempo infatti dichiara che dall’insieme di provvidenze ed aiuti saranno esclusi coloro che non vantano “quattro quarti” di trentinità, connotando la programmazione demografica provinciale con deboli opzioni localistiche. Ad esempio sulle politiche per la casa, provando a dividere non soltanto, come sempre è stato, i cittadini extracomunitari dagli altri, ma anche i comunitari dagli italiani, dimostrando di non conoscere le norme base dell’ordinamento giuridico trentino, italiano ed europeo.

Ciò che pare essere del tutto assente nel ragionamento politico della maggioranza provinciale a trazione leghista è la necessaria ed indispensabile indagine sociologica sulle cause della decrescita demografica del Trentino, cause che, ad una prima analisi ed a parere dell’interrogante, vanno ricercate in una gamma assai vasta di fattori. Ogni società economicamente solida tende ad avere tassi di natalità che si abbassano, ma sono presenti poi differenziazioni anche importanti.

Gli elementi che vengono ricordati maggiormente sono quelli legati alla precarietà del lavoro ed alla difficoltà nel costruire un minimo risparmio; alla limitatezza delle strutture a favore dell’infanzia e alla pesantezza dei costi posti in capo alle famiglie; alla fragilità dei matrimoni stessi alle pur esistenti differenze fra centri urbani e periferie e via dicendo. Elementi quindi di sostegno economico su cui si può sicuramente migliorare ma che vedono condizioni in Trentino riconosciute come già solide e positive.

Altri fattori possono essere culturali e psicologici, ragioni che per qualcuno non sono disgiunte dalle troppe percezioni di insicurezza, di paura e di inquietudine sul futuro che proprio il leghismo sovranista alimenta ed ha alimentato in chiave elettorale, qui come nel resto del Paese.

Carenza di modelli inclusivi e promozione delle culture dell’egoismo individuale e di gruppo; insistenza nel far percepire una realtà virtuale, lontana da quella reale, nella costante riproposizione dei temi del disagio causati dai fenomeni immigratori; mistificazione dei valori religiosi a fini politici, disgregazione della coesione sociale in nome della rischiosa propaganda del “prima gli italiani”, che presuppone a sua volta il principio del “prima i trentini”, al quale fa da avanguardia quello del “prima la mia valle”, che ha come premessa quello del “prima il mio paese” e così di seguito in un percorso a ritroso che alla fine segna la solitudine della persona.

Su tutto questo terreno, scarsamente invitante al “costruire famiglia”, le difficoltà di reperire spazi nelle fasce medie del mercato del lavoro e le spinte ad emigrare per coloro in possesso di formazione medio-alta al fine di trovare più consona occupazione, rappresentano un altro fattore di indebolimento demografico, fattore che non può essere risolto con soluzioni tampone o con improvvisazioni copiate dal passato, ma che necessita di un progetto politico ampio e di lunga deriva e di una cultura della prospettiva sociale non riducibile al verificare, dopo cinque anni, se “produrrà effetti” o meno. E se non li producesse? E se gli strumenti messi in campo frettolosamente non favorissero una minima ripresa demografica?

Non abbiamo inoltre sentito parlare dei fenomeni della denatalità e dell’invecchiamento come legati anche ai cambiamenti demografici, intesi come modifica intergenerazionale: quante sono le donne in età fertile oggi rispetto al passato? Sono diminuiti i nati in termini assoluti perché si è abbassato il tasso di natalità (e quindi ci sono meno figli per donna), o ci sono anche meno donne nella fascia di età idonea a fare figli? Perché questo cambia completamente l’impostazione e le proiezioni.

Come già accade in molti altri settori, questa Giunta provinciale pare insomma incapace di formare un suo proprio, autonomo ed originale progetto di governo, tutta tesa com’è a copiare a casaccio altrui politiche; ad affidarsi a “spot” di sapore elettorale; a schierare figure massmediatiche di forte impatto comunicativo o a rimettersi sempre più spesso alla normativa nazionale, abdicando di fatto alle competenze autonomistiche. Si tratta di una strada senza uscita e di una deriva che porterà l’autonomia trentina ad essere sempre più residuale e debole.

Tutto ciò premesso, si chiede cortesemente di poter interrogare la Giunta provinciale per sapere:

- sulla basi di quale indici analitici della scienza demografica si è elaborata l’annunciata politica pronatale provinciale, in particolare quale sia il trend del tasso di natalità ed il confronto con le altre realtà italiane ed europee, e quale sia la proiezione rispetto all’età delle donne in Trentino;

- quali esiti ha prefigurato tale analisi, almeno in linea teorica e con quali impatti sul futuro;

- come si pensa di dividere le graduatorie per l’edilizia popolare tra cittadini trentini e comunitari, modificando l’intero quadro dell’ordinamento giuridico nazionale ed europeo, e quali criteri giuridici si intendono utilizzare per certificare la trentinità degli aventi diritto.

A norma di regolamento si richiede risposta scritta.

Distinti saluti

consigliere Luca Zeni